Come ci approcciamo al giovane che pratica attività sportiva: il parere di un tecnico di Atletica Leggera: Mario De Benedictis

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Repetita.

Si fa presto a dire “campione”, oggi. Presto, anzi prestissimo. Sinceramente ne ho piene le tasche di genitori ipercoinvolti nella vita sportiva dei loro figlioli; papà (e anche mamme) prontissimi nell’incalzare allenatori ed educatori con il trito refrain “dove potrà arrivare mio/a figlio/a?”, piuttosto che ‘limitarsi’ a seguire, alla giusta distanza, l’esperienza educativo-formativa intrapresa. (Esiste un patto educativo tra genitori e insegnanti? Esistono ancora gli insegnanti?).

Badate bene, qui non voglio negare la possibilità che un giovanissimo talento riesca a realizzare il sogno (proprio o altrui) di diventare un campione dello sport, ci mancherebbe. È che del significato del termine “campione” ho un’idea precisa; etica. Qualche anno fa scrissi una definizione ‘romantica’ di campione nelle discipline dell’endurance podistico (marcia e corsa), a proposito della vicenda umana e sportiva di un mio caro amico:

“A me piace l’accezione medievale del termine. Campione come duellante in difesa di una causa nobile. Nello sport, il nostro sport, me lo figuro un po’ Parsifal, un po’ Sisifo. Un cavaliere appiedato per scelta e condannato all’amore per la fatica”.

Ma i genitori di quei poveri ragazzini, ‘aspiranti campioni’, ignorano chi siano Parsifal e Sisifo e, ahimè, tanto altro ancora. Lacune culturali e morali di cui non hanno consapevolezza e che spesso (sempre più spesso) li inducono ad arrogarsi il ruolo di tecnici (“Tanto, bene o male, ho capito come si fa; sono sei-sette anni che accompagno mio/a figlio/a allo stadio”).

Oggi si fa presto a dire “campione”, dicevo. E ne ho piene le tasche pure di quelli che su facebook, come nei discorsi per strada, usano l’appellativo enfatizzando oltre misura l’ennesima affermazione podistica amatoriale del tapascione di turno.

Negli ultimi anni ho allenato atleti mediocri, in partenza (spero non si offenda nessuno: mediocri vuol dire nella media; nel mezzo tra due estremi); nessun talento straordinario. Bravi ragazzi che hanno dimostrato di ‘capitalizzare’ i loro numeri al meglio (a volte andando addirittura ben oltre ogni più rosea aspettativa agonistica), crescendo prima come persone e poi, di conseguenza, come atleti. E non è un caso che i risultati migliori dei più giovani siano scaturiti da un’intesa armonica tra genitori e allenatore, da quell’equilibrio che è rispetto dei ruoli e giusta distanza tra le figure di riferimento. Quando questo meccanismo virtuoso si è inceppato i ragazzi sono spariti (spariti nel senso che hanno abbandonato l’attività; chi subito, chi dopo il “giro delle sette chiese”, alla ricerca dell’allenatore perfetto).

In Abruzzo, dove vivo e alleno, di campioni (veri; l’aggettivo non appaia scontato) in atletica ne ho conosciuti davvero pochi. Ho avuto la fortuna e il privilegio di allenare il più forte di essi: mio fratello Giovanni. La buona sorte di aver visto (quasi) tutto mi dà una pace assoluta che somiglia molto all’atarassia.

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